Emergenza clima, Luca Mercalli: “La sostenibilità come scelta individuale e collettiva”

L’umanità sta correndo rischi colossali. In questa intervista, il climatologo Luca Mercalli, spiega che per mantenere vivibile il nostro pianeta dobbiamo applicare necessariamente tutte le tecnologie dell’efficienza e della sostenibilità, ma entrando anche nell’ottica di fare qualche rinuncia. Occorre sempre di più affidarci alle energie rinnovabili e alla mobilità elettrica, settori da sviluppare in parallelo all’eliminazione di ciò che crea danno

Come sta, Luca? Come ha vissuto i mesi difficili della pandemia? Sta lavorando a un nuovo libro?

L’anno della pandemia fortunatamente l’ho potuto trasformare in attività da remoto. Grazie soprattutto allo sviluppo rapidissimo delle tecnologie di comunicazione, ho convertito sotto forma di webinar e interventi in remoto tutte le conferenze, i viaggi di lavoro e gli eventi formativi cui presenziavo sino a poco prima. Nel giro di un mese, ho cambiato radicalmente il mio stile di lavoro e, pensate un po’, il tutto senza particolari difficoltà né traumi. Ho avuto il tempo di terminare il libro, pubblicato a settembre del 2020, che racconta la mia esperienza di trasferimento in montagna, “Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale”. In questo momento non ho in progetto nuove uscite editoriali, ma continuo a stendere articoli ed elaborare studi scientifici che mi portano comunque a scrivere costantemente.

Parliamo di clima: che fase dell’emergenza climatica stiamo vivendo?

Stiamo vivendo un’emergenza che è stata in parte occultata dalla pandemia. Oggi tutta la scena dell’informazione è sostanzialmente presa dai dati dell’emergenza sanitaria e quindi è venuto meno l’approfondimento sui temi climatici. Però il problema continua ad esserci e i dati a livello mondiale non danno alcun segnale positivo, anzi vediamo un costante peggioramento degli indicatori. La quantità di emissione di CO2 nel mondo continua ad aumentare, nonostante un fugace momento di riduzione dato dai primi lock-down del 2020. Ma è durato poco.arzo e maggio 2020, ha portato al 6% di diminuzione delle emissioni globali. Ad oggi, però, abbiamo annullato già tutto, ritornando esattamente come prima.
La cosa però positiva è che si sta ricominciando a parlare concretamente di negoziati sul clima. Quest’anno infatti avremo la grande conferenza di Glasgow a novembre 2021, che vedrà il ritorno degli USA. Dopo quattro anni in cui l’amministrazione Trump era uscita dall’Accordo di Parigi, il nuovo Presidente Biden ha invece espresso la volontà di invertire la rotta. Ci aspettiamo quindi che in questa conferenza finalmente emerga qualcosa di più concreto rispetto a quello che si è fatto adesso, ovvero molte parole e tanto green washing.
In Italia, il nuovo Ministero per la Transizione Ecologica pare essersi limitato sinora a tanti annunci, senza apparentemente apportare miglioramenti rispetto a quanto non facessimo già prima. Sembra non esserci il coraggio politico di cambiare le cose. L’emergenza sanitaria ci ha dato prova che a fronte di provvedimenti incisivi possiamo ottenere un cambiamento. Spero non ci voglia ogni volta una pandemia per capirlo: abbiamo infatti notato qual è la misura di quello che bisogna negoziare e concordare per avere un effetto di reale sostenibilità ambientale, altrimenti quelli intrapresi diventano tutti meri accorgimenti decorativi.

La cosa difficile è fare percepire il positivo di questi cambiamenti e dei nuovi stili di vita sostenibili. Il problema è forse la comunicazione delle potenzialità che un mutamento così radicale avrebbe su di noi?

Il positivo è la posta in gioco, che è gigantesca. Non ci stiamo rendendo conto che stiamo condannando tutta l’umanità e tutte le generazioni future ad un pianeta ostile. Purtroppo siamo ad un punto di non ritorno: abbiamo esaurito le potenzialità di prevenzione con i tentennamenti dei trent’anni precedenti e ci siamo messi così nei guai con le nostre mani. Ora per far fronte all’emergenza climatica dovremo per forza rinunciare a qualcosa. Se trent’anni fa avessimo messo in atto misure concrete, ci sarebbe stato il tempo di fare la vera transizione, cioè un passo per volta. Si pensi infatti che il primo accordo internazionale sul clima venne fatto nel 1992 a Rio de Janeiro: ad oggi, trent’anni di sole parole.
Avendo quindi perso questo periodo di prevenzione, adesso la “malattia” è in corso. Vi faccio un esempio: quando il malato va dal medico ed ha una brutta malattia, non c’è spazio per edulcorare la pillola, c’è la sala operatoria. Bisogna essere in grado di accettare dei tagli netti ai processi che creano danni.
Ad esempio, in Italia si continua a cementificare, creando anche problemi per il turismo: se viene costruito un capannone accanto ad una villa del Palladio, non è possibile attendersi poi il turismo internazionale. E oltre al danno al comparto turistico, il problema è soprattutto territoriale, perché quando comincerà a piovere di più, a causa del cambiamento climatico, l’acqua non riuscirà a defluire e renderà le alluvioni ancora più catastrofiche di quanto non abbiamo già visto. La soluzione concreta? Basta consumo del suolo. Ciò che ovviamente questa scelta comporta è il malcontento di coloro che hanno degli interessi nel campo. La transizione ecologica richiede di aggiungere nuove infrastrutture come pannelli solari e pale eoliche, ma richiederebbe anche un radicale blocco dei processi che provocano danni irreversibili e che invece non si ha il coraggio di fermare.
C’è un problema di fondo di psicologia sociale, oltre che di interessi. Siamo una specie che tende a rifiutare ogni prevenzione a lungo termine, in tutti i settori, non solo sul clima. Lo abbiamo fatto anche con la pandemia: ci siamo mossi tardi e non avevamo un piano di prevenzione.

Che contributo possono dare le startup e l’innovazione verde all’azione climatica? Cosa ne pensa poi dei cosiddetti offset tanto di moda, ma molto controversi? Ben venga un giudizio critico.

La situazione in cui siamo oggi non è del tutto irrecuperabile. Semplicemente, i danni climatici e ambientali che abbiamo fatto finora ormai non si possono più riparare, ma possiamo evitare di farne di peggiori per il futuro. Per arrivarci bisogna essere rapidi, quindi è chiaro che il ruolo dell’innovazione è importante, soprattutto in campo energetico. Dobbiamo sprecare meno energie, dall’edilizia ai processi produttivi. Occorre sempre di più affidarci alle energie rinnovabili e alla mobilità elettrica, settori da sviluppare in parallelo all’eliminazione di ciò che crea danno.
Gli offset, ovvero le cosiddette forme di compensazione (“io inquino, ma pianto alberi per compensare”, ndR), sono invece controversi: se non fermo il motivo del danno, non otterrò mai il risultato. Le compensazioni hanno un senso limitato nel tempo e solo per alcune produzioni.
Ad esempio, gli ospedali consumano energia e non possono fare ancora la transizione ecologica per motivi infrastrutturali; però sono indispensabili e, in questo caso, sarà utile una compensazione che serva ad allocare risorse laddove posso fare investimenti in innovazione e in ricerca. È però impensabile gestire tutto così. Se adottiamo le compensazioni per produrre auto di lusso, che non sono beni necessari perché non tutti devono spostarsi usando un mezzo da 350 cavalli, sicuramente la compensazione è inutile. Per certi settori le compensazioni non dovrebbero potersi utilizzare; utilizziamo piuttosto piccole auto utilitarie, moderne ed elettriche ed eliminiamo all’origine la fabbricazione di oggetti inutili e inquinanti.

Ci interessa molto il suo parere sul Green Deal europeo. Quale in particolare potrebbe essere il ruolo dell’Italia in questo contesto?

Il Green Deal è senz’altro all’avanguardia come messaggio sulle politiche sostenibili. È un ottimo programma, ma con due difetti: il primo consiste nel fatto che è solo sulla carta, mentre il secondo riguarda le contraddizioni in esso contenute. Il Green Deal spiega quante cose vanno trasformate in green, ma non dice quali invece chiudere: le lascia in essere, facendo sì che il mercato le riassorba nel tempo. Tuttavia, abbiamo urgenza di agire e non possiamo permetterci un processo di questo genere. Nel contesto italiano, ma anche in generale, da un lato occorre incentivare il nuovo e il sostenibile, e dall’altro bisogna chiudere il vecchio che danneggia. Trent’anni fa potevamo viaggiare in parallelo, ma adesso ciò deve essere fatto contestualmente e in maniera integrata, magari avendo il coraggio di mettersi contro alcuni interessi economici. Non è possibile tenere i piedi in più scarpe!

Quanto potrebbe costarci una ripresa economica basata sul business as usual in termini di cambiamento del clima? Come immagina il futuro dell’economia e del lavoro?

La ripresa economica basata sul business as usual vuol dire solo uno scenario: catastrofe ecologica ed umanità in estinzione. Le generazioni future vivranno in un pianeta ostile. Per mantenere vivibile il nostro pianeta dobbiamo applicare necessariamente tutte le tecnologie dell’efficienza e della sostenibilità, ma entrando anche nell’ottica di fare qualche rinuncia. Sarebbe necessario attuare una “decrescita”, termine colto come dispregiativo che però significa in questo caso eliminare il superfluo e le inefficienze; non vuol certo dire vivere di stenti.
La crescita infinita non è compatibile con un mondo dalle dimensioni finite. Il Pianeta ha dimensioni limitate: come è possibile perseverare con una crescita infinita in un mondo finito? Non lo è, perché la Terra esaurisce il suo capitale di risorse ed aumenta invece quello dei rifiuti. Siamo noi che dobbiamo adeguarci alle dimensioni fisiche della Terra, non il contrario. Nel caso del clima, abbiamo noi la rotella del termostato in mano, siamo noi la causa, ma questo vuol dire anche che siamo noi la soluzione. Dobbiamo fermarci a pensare ai bisogni reali e non ai bisogni indotti.

La prima edizione di GECO EXPO ha aperto discussioni interessanti, ad esempio durante la tavola rotonda “Azioni per il clima”, che hanno aperto la via per un dialogo concreto e costruttivo sul futuro della sostenibilità. Che ne direbbe di intervenire ad una delle tavole rotonde dell’edizione 2022, per portare ancora più valore alla discussione sul clima?

Quello che ho notato è che mancano spazi informativi adeguati su questi temi. Il problema è che non si approfondiscono mai i problemi ambientali; tutti ne parlano, ma si rimane in superficie. Sono temi complessi e che hanno una quantità enorme di connessioni uno con l’altro ed ovviamente non sono argomenti che possono esaurirsi nel giro di pochi minuti. Senz’altro ci vuole uno scossone ancora più forte, ancora meglio se in una piattaforma virtuale che non inquina. Ci aggiorniamo sicuramente!

Ambiente Magazine

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