Climate change, globalizzazione del problema e blockchain

La blockchain è una soluzione che potrebbe fornire un’adeguata soluzione a coloro che sono ancora scettici sulla possibilità di tracciare le emissioni prodotte dall’industria. In futuro potremmo imbatterci in negozi i cui prodotti in vendita hanno differenti livelli di IVA applicati in base all’impatto che il ciclo produttivo ha avuto sull’ambiente. L’assunto si basa sulla possibilità di mettere in pratica l’ImEA, ovvero un’imposta sulle emissioni aggiunte

La globalizzazione sembra essere un concetto talmente chiaro che nessuno si preoccupa più di definirla, ricercarne le cause e chiedersi dove condurrà. La globalizzazione è diventata, nei pensieri del popolo come dei governanti, il presente immutabile.
Ma tanto chiaro il concetto non deve essere se la risposta che viene data alla competizione internazionale economica è l’imposizione di dazi. Che sarebbe come inveire dietro una finestra chiusa contro gli odori provenienti dal barbecue organizzato dai nostri nuovi condomini cinesi. Barbecue al quale sono stati invitati tutti gli altri condomini tranne noi e vedremo chi avrà la maggioranza alla prossima riunione condominiale.
La globalizzazione ha le sue più immediate origini in 3 episodi: la caduta della contrapposizione economica e ideologica comunista (1989), la nascita e lo sviluppo di un servizio tecnologico, il world wide web (1989- 1991) e il pragmatico ingresso della Cina nell’organizzazione mondiale del commercio, il WTO (2001). Eventi che si sono succeduti proprio negli anni in cui le nazioni sembravano aver preso atto della necessità di creare sviluppo economico senza depauperare le risorse del pianeta e limitare le emissioni di gas ad effetto serra che avrebbero condotto al riscaldamento globale; di quegli anni è infatti la prima “riunione di condominio”, la Conferenza di Rio (1992).
Da allora sono passati 27 anni e dovrebbe essere ormai chiaro che se durante una ristrutturazione si abbatte un muro portante, non crollerà solo quell’appartamento, ma l’intero condominio.
Ma tanto chiaro non deve essere nemmeno questo se la nuova Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nel suo discorso programmatico al Parlamento Europeo ha proposto di innalzare l’obiettivo UE 2030 di riduzione delle emissioni climalteranti al 50% – dal 40% attuale – rafforzando il meccanismo ETS e, contemporaneamente, introdurre di una “Carbon Border Tax”, di fatto un dazio, per contrastare il fenomeno della delocalizzazione degli impianti europei in territori fuori la UE proprio per non essere soggetti agli obblighi ambientali, il c.d. carbon leakage.
Dunque ancora un approccio territoriale per limitare le emissioni con destinatari solo una porzione delle imprese, che operano nel mercato globalizzato quelle europee. E poi un “bel” dazio classico per riequilibrare la competizione, ma solo sul territorio europeo. Detto in altri termini l’ETS, che opera sulla produzione, creerà un peso economico all’industria europea anche se il prodotto è venduto in Turchia. Diversamente il prodotto indiano o cinese, venduto sempre in Turchia, non risentirebbe in alcun modo della tassa alla frontiera europea. Più aumenta il peso dell’ETS in termini di costo per tonnellata, o quantità di tonnellate da acquistare, più l’industria in territorio europeo ne risentirà sulla competitività.
L’unica strada per non svilire ulteriormente l’industria continentale, facendole anzi recuperare competitività è di imporre un prezzo amministrato alla CO2 “contenuta” nei beni, cioè di contabilizzare puntualmente le emissioni derivanti dal mix energetico utilizzato, dall’efficienza dei macchinari e dei processi etc., sia che questi beni vengano prodotti in UE o importati, e perequare questo costo sull’IVA applicata al consumo. Questa proposta, l’ImEA, si basa sull’idea che l’industria europea non debba essere svantaggiata dalla propria maggiore sostenibilità ambientale ma che questo debba diventare un vantaggio anche nei prezzi al consumo quindi, a fronte di uno sgravio sull’IVA per i prodotti sostenibili, ci sarà un aggravio su quelli meno sostenibili (presumibilmente e in massima parte extra UE) tale da compensare i minori costi sugli impegni ambientali cinesi, indiani etc. Non è una tassa alla frontiera, un dazio, ma una valorizzazione degli impegni europei per una minore intensità emissiva.
Questa proposta è stata oggetto di una mozione parlamentare nella precedente legislatura e di una risoluzione sostenuta da tutte le forze politiche; inoltre è già stata sostenuta da Enea, dalla FLAEI, da associazioni ambientaliste e da numerosi operatori industriali.
Il più delle volte questa proposta solleva incredulità e obiezioni non sempre puntuali. Tra le più gettonate ci sono la sostenuta impossibilità di calcolare le emissioni di tutti i componenti di un bene complesso assemblato con una moltitudine di materiali e di processi (come un’automobile o un cellulare) e, come seconda, la presunta irrealizzabilità di mettere in piedi un sistema che garantisca la tracciabilità di queste emissioni tra produttori di rame cileni, di alluminio australiani, fabbricanti di oblò in Tailandia e assemblatori di lavatrici in Cina.
Mentre per la prima questione il problema è quasi banale per ogni ingegnere di processo, la seconda obiezione, in merito alla tracciabilità, merita un approfondimento.
Il sistema dovrebbe garantire trasparenza dei passaggi, immodificabilità, certezza temporale e certificazione.
Esiste già un meccanismo che garantisce tutte queste cose a un costo di esercizio molto limitato: la blockchain.
La blockchain è una sorta di libro mastro di un notaio nel quale sono trascritte tutti le transazioni monetarie e i corrispondenti passaggi di proprietà.
Più che una tecnologia è un processo tecnologico che garantisce trasparenza attraverso certificazione (ampia a piacere), sicurezza, certezza temporale e immutabilità: un database di blocchi, ognuno contenente più transazioni, dove ciascun nodo è un archivio di tutta la blockchain e della relativa marca temporale – ossia “quella transazione in quel momento” – e di tutti i blocchi con lo storico di tutte le transazioni.
Ma se fino ad ora la blockchain è stata impiegata per le transazioni economiche e spesso associata con approssimazione alle cryptovalute, questo non significa affatto che non possa essere utilizzata per tracciare le transazioni emissive di bene in bene per tutta la filiera produttiva peraltro con straordinaria efficacia. Il passaggio monetario o quello dei dati riferiti alle emissioni per la produzione di un determinato componente non differiscono assolutamente da un punto di vista digitale.
Si provi ad immaginare, semplificando, articoli disposti sugli scaffali o in mostra nei negozi che evidenzino tutti differenti livelli di IVA relativi al loro impatto sull’ambiente e alle loro emissioni. Questa non è un’impronta di carbonio, non è un generico avvertimento al consumatore: questo è uno standard di sostenibilità ambientale che crea una competizione nell’utilizzo di fonti rinnovabili e di efficienza dei beni strumentali. Una competizione nella quale le industrie europee, temprate da un decennio di stringenti politiche ambientali avrebbero un grande vantaggio.
Ma il vantaggio più grande sarebbe che la competizione economica condurrebbe a una competizione ambientale perché il futuro della globalizzazione non può essere che nella condivisione di valori.

Ambiente Magazine

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